Testi e foto MARCO CALVARESE
La signora Amina, 87 anni, dà uno strattone alla corda e la campanella sulla sommità della chiesetta di San Vincenzo Ferreri a Capsano, frazione di Isola del Gran Sasso (Teramo), suona per radunare i sei partecipanti alla S. Messa domenicale delle 9. “In montagna gli orari non sono precisi, si può tardare per molti motivi” dice don Franco D’Angelo, 44 anni. È nato sul mare, a Giulianova, ma dalle mani di un medico di Castelli, proprio il paese dove dal 1998, subito dopo l’ordinazione, è parroco. “Qualcuno voleva già farmi capire qualcosa della mia vita” dice. Castelli è la patria della ceramica, attività economica fiaccata dal terremoto che nel 2009 ha distrutto il centro storico e tutte le attività di produzione e vendita, condannando il turismo di settore.
Mentre il sacerdote indossa i suoi paramenti nella ‘sagrestia’, che è in realtà solo un mobile sistemato vicino alla porta d’ingresso, fuori la neve brilla sulle imponenti montagne dell’Appennino centrale. Neve che, fin da ottobre prossimo, inizierà a cadere anche sulle zone dove don Franco si muove ogni giorno per 70 mila chilometri l’anno, grazie alla sua tenacia e ad un’inarrestabile Panda 4x4 che lo porta a destinazione anche quando le tortuose e sconnesse strade delle 12 frazioni di Castelli, Villa Rossi, Colledori e Palombari, sono ricoperte di coltre bianca. Come quella caduta a metri lo scorso anno e che, accompagnata alle scosse di terremoto, ha creato disagi e disperazione, risparmiando alla gente di qui solo le morti che hanno invece colpito la vicinissima frazione di Rigopiano (29 le vittime nell’hotel travolto da una valanga).
“Il sisma e poi anche le condizioni meteo estreme hanno disperso i fedeli ovunque” spiega don Franco ripensando a quanti, dal 2009, sono andati via per paura o perché senza più una casa. Nel 2016 alcuni di questi cittadini si radunarono nella casa parrocchiale, costruita con sacrificio proprio da lui dopo 10 anni in affitto, perché era l’unica abitazione ritenuta sicura. Ora la casa di don Franco è diventata il punto di riferimento per tutte le attività, compresa la raccolta di alimenti destinati a chi nel silenzio ha bisogno.
“Quelle nevicate sono state davvero un periodo brutto. Nessuno poteva muoversi, ma don Franco è riuscito ad arrivare dove serviva” ricorda un gruppo di parrocchiane. Marilù, Francesca, Arianna, Elisa, Francesca, Alessia e Valeria coralmente animano e curano la parrocchia. “Quando tutto era bloccato lui ha accompagnato la Protezione civile, è venuto a dire Messa, ha portato i pacchi della Caritas”, fino a mettersi alla guida del furgone rosso, acquistato usato dalla parrocchia, per portare gli ammalati in sicurezza.
Un affetto profondo lega parroco e fedeli ormai da 20 anni, “anche con persone che non frequentano la chiesa”, conferma Peppino, capo della comunità scout fondata proprio da don Franco, mentre aiuta il sacerdote a far scendere le scale a un’anziana: “È un prete che si corcia le maniche” (cioè si rimbocca le maniche), alludendo anche a tutte le chiese riaperte grazie al suo impegno. Tesori sorprendenti e nascosti. Come quella quattrocentesca di San Donato, definita da Carlo Levi (l’autore di Cristo si è fermato ad Eboli e Le parole sono pietre) la “Cappella Sistina della maiolica”. O Santa Maria della Neve a Befaro, la cappella Madonna delle Grazie di Villa Rossi, dove i fedeli partecipano alla Messa stipati perché la chiesa madre di Sant’Andrea è terremotata. O San Giovanni Battista, riaperta il 5 novembre scorso al culto e dove, nelle 4 dita mancanti alla mano destra del crocefisso ligneo del ‘500, è raccontata la sofferenza di una chiesa chiusa per 40 anni.
“Un prete viene inviato in montagna per fargli fare gavetta all’inizio del ministero – sorride don Franco – ma appena ho avuto la possibilità di uno spostamento, sono iniziati i terremoti”, facendo capire che in quel momento drammatico non avrebbe mai voluto allontanarsi. “Bisogna santificare la vita. Ci aiuta a scegliere di vivere il Vangelo”. Raccogliere e spaccare la legna per il camino, percorrere chilometri di tornanti per arrivare dai suoi parrocchiani, rifiutando da sempre anche i 436 euro che gli spetterebbero come contributo dalla comunità: “non ci sono soldi. Come si fa a chiederli ai fedeli?”.
Da mattina a sera, e ancor più nei momenti di difficoltà, don Franco confessa “mi ripeto continuamente sia fatta la Tua volontà”. Anche quando il fratello gli diceva di tornarsene a casa, o quando ha vissuto con la comunità una serie di tragici lutti di giovani, tra i quali un suo studente, o la morte di alcuni amici, “non ho mai pensato: chi me lo ha fatto fare. La montagna ha una sua dimensione cristiana genuina che non si trova dalle altre parti”, afferma don Franco, che sottolinea come non si registrino fenomeni di “satanismo” e di come “non esista l’indifferenza” tra le persone, che sono molto franche fra loro.
“Se sono qui c’è un progetto”, ripete fiducioso. E le sue parole fanno ripensare a un prete da romanzo, quel don Camillo, parroco di Brescello (Reggio Emilia) immaginato da Giovanni Guareschi e a cui furono dedicati diversi film. Pochi sanno che alcuni esterni furono girati molto lontano dall’Emilia, uno proprio a Rocca di Cambio (L’Aquila), in Abruzzo, che nel film è Montanara. Durante una bufera di neve, salendo proprio verso Montanara parla al crocefisso che ha in braccio: “Grazie Signore, io ora odo la vostra voce e tutto è bello quassù”.