Trasformare le proprie debolezze in punti di forza, partire dalle fragilità per far nascere qualcosa di bello e duraturo, esattamente come “la pietra scartata dai costruttori (che) è divenuta testata d’angolo” (Salmo 118). È questa l’intuizione alla base della Fraternità di Romena, che ha preso dimora nell’antica Pieve romanica del 1152, a due passi da Arezzo. “L’idea nasce nel 1991 da una mia esperienza di forte crisi vocazionale: sacerdote da 7 anni, non ero più sicuro di essere sulla strada giusta – racconta don Luigi Verdi, per tutti don Gigi –. Ottenuta la dispensa dal vescovo, ho viaggiato 3 mesi tra i campesinos della Bolivia, mi sono appassionato all’itinerario spirituale di Charles De Foucauld, per tornare con le idee chiare: aiutare, rimanendo fedele alla mia vocazione sacerdotale, chi, come me, aveva vissuto o stava vivendo una crisi. Ma mancava un passaggio fondamentale perché l’aiuto fosse vero ed efficace: sperimentare su di me il coraggio di trasformare quelle che consideravo una maledizione, ovvero la mia terribile timidezza e le malformazioni a mani e piedi con cui sono nato, in una benedizione. E così ho passato un anno intero a forzarmi a guardare le persone negli occhi e a creare icone con le mie mani”.
Alla Pieve, davvero tutti vengono accolti. “Giovani in crisi, genitori che hanno vissuto il peggiore dei lutti, ossia la perdita di un figlio, famiglie, religiosi – va avanti don Gigi –. Non c’è una categoria prediletta ma solo persone che, credenti o atei, sono alla ricerca di risposte, di luce. L’aiuto che offriamo è l’invito ad ascoltarsi, ad aprire gli occhi, a sbarazzarsi di quelle lamentele di cui spesso siamo impastati e a compiere un atto di volontà, un colpo d’ali che, dall’alto, da un’altra prospettiva, faccia scoprire tesori nascosti. Certo, parlo di Gesù ma in maniera delicata, rispettosa. Gesù stesso, ad Emmaus, non si è fatto riconoscere, ha condiviso il dolore dei viandanti, ha fatto finta di andare via perché fossero loro, i discepoli, a sentire nel cuore l’ardente desiderio di Lui”.
“Ho cominciato con i fine-settimana, in cui proponevo un percorso snodato in tre fasi: rientrare in se stessi, come il Figliuol prodigo, per ascoltarsi appunto e cercare dentro di sé le soluzioni; innamorarsi di Dio nella semplicità e nella tenerezza; trovare strumenti concreti per tornare a casa e vivere meglio. Vivere uniti dentro, non spaccati, al contrario di ciò che la modernità ha provocato, ossia la separazione tra mente, corpo e anima”. In tutto questo, non è secondario il ruolo della natura, con i paesaggi mozzafiato che incorniciano la Pieve, che chiama necessariamente a un confronto, a un rapporto che si è perso e che, qui, viene riproposto. “Non possiamo ignorare il fiore, il gregge, il monte da cui, invece, possiamo trarre insegnamenti fondamentali, e di cui Gesù stesso si serviva per parlare in parabole”. La Via della Resurrezione, ad esempio, è una passeggiata lungo i boschi e i sentieri intorno alla Pieve in cui la natura aiuta e ispira le meditazioni proposte e “il Giardino della Resurrezione è un tripudio di mandorli in fiore (ognuno dei quali piantato dai genitori del Gruppo Nain, che hanno perso un figlio) con al centro un grande olivo. Niente è casuale: né l’olivo, simbolo della vita, né il mandorlo che con i suoi fiori sfida il gelo, a testimoniare la vita che va prepotentemente avanti e punta al cielo, né il giardino, in quanto un giardino fu luogo dell’annuncio della Resurrezione”.
All’inizio, 30 anni fa, don Gigi era pressoché solo, poi la Fraternità è cresciuta a tal punto che adesso raccoglie una sessantina di collaboratori, alcuni dei quali lavorano qui per la casa editrice, la libreria, il punto ristoro. Le attività sono numerose, tra l’accoglienza, i corsi e i convegni che si svolgono nella ‘stalla’, un Auditorium da 300 posti e, novità di quest’anno, “la fattoria accanto alla Pieve, che viene inaugurata proprio ora, a luglio, come casa d’accoglienza, la Casa della Misericordia, in buona parte realizzata con i fondi dell’8xmille”.
LA TERZA PAROLA DEL PERCORSO: “FRATERNITÀ”
Accanto ai sacerdoti, come fratelli
“Sogno” e “fecondità” sono state le prime due tappe dell’itinerario che stiamo condividendo con l’Ufficio nazionale Cei per la pastorale delle vocazioni per accompagnare, nella preghiera e nel dono, il cammino dei futuri sacerdoti.
La terza parola che stavolta ci viene consegnata è “fraternità”. «Come io vi ho amato – afferma Gesù nel vangelo di Giovanni (13,34) – così amatevi anche voi gli uni gli altri». Il comandamento dell’amore ci esorta alla fraternità, e a questo invito papa Francesco ha dedicato la recente Enciclica “Fratelli tutti”, che gli è stata ispirata dal santo dell’amore fraterno, Francesco d’Assisi. I sacerdoti sono i primi a mostrarci come viverla spiritualmente e concretamente, perché per essere pastori di Cristo occorre amare non solo Dio ma tutto il suo popolo. In uno slancio che arriva ad aprirci il cuore al rispetto e alla custodia di tutto il creato, che ci è stato posto tra le mani perché lo abitiamo insieme.
Proprio in nome della fraternità i nostri preti ci chiamano a collaborare con loro perché ci tendiamo l’un l’altro la mano. I sacerdoti sono per noi come fratelli e come tali si comportano.
Anche noi, ugualmente, dobbiamo sentirci per loro dei fratelli e sostenerli, per ricambiare l’affetto e la sensibilità con cui ci sono accanto. S. P.