SERVIZIO PER LA PROMOZIONE DEL SOSTEGNO ECONOMICO ALLA CHIESA CATTOLICA
della Conferenza Episcopale Italiana

In Un Altro Mondo: i 4 giovani si raccontano

L'esperienza di volontariato all'estero di Marta, Federica, Angelo e Clelia forse è giunta al termine? Per quello che raccontano e che porteranno sempre con sè, forse no. Sono tante le belle esperienze vissute e tante le emozioni da ricordare. Alcune hanno volute condividerle con noi.  Angelo - Douala (Camerun) "Essomba" (nella lingua locale) "volontario" mi chiamavano alla […]
14 Settembre 2017
L'esperienza di volontariato all'estero di Marta, Federica, Angelo e Clelia forse è giunta al termine? Per quello che raccontano e che porteranno sempre con sè, forse no. Sono tante le belle esperienze vissute e tante le emozioni da ricordare. Alcune hanno volute condividerle con noi. 
 
Angelo - Douala (Camerun) 
"Essomba" (nella lingua locale) "volontario" mi chiamavano alla prigione di Mbalmayo, dov'ero fino a pochi giorni fa. Per un mese sono stato con loro, i detenuti, ogni mattina, lavorando nell'orto o nel pollaio, che con il Coe hanno costruito, giocando a calcio, o anche solo parlando. Con loro, tra i detenuti, un mese!
Il nostro progetto si chiamava "in n altro mondo" ed è proprio vero che il Camerun è un altro mondo, così diverso dal mio, ascensore e pay tv. A Mbamayo le capre pascolano sulle strade, i bambini portano sulla testa i secchi d'acqua tornando dal pozzo, e ancora le foreste, la cucina: un altro mondo! Ma oggi, che già sono in Italia da una settimana, non ricordo tanto l' "altro" mondo (capre e secchi d'acqua) ma solo tanti uomini che ho incontrato così simili a me, al mio mondo, perché anche dentro le prigioni ("cosa ci vai a fare in Camerun, e in prigione?!? Non hai paura?" mi dicevano i miei amici prima che partissi) non ho trovato altro che uomini come me, (uno che mette i soldi da parte per la macchina proprio come li metto da parte io, uno a cui manca la sua fidanzata proprio come a me manca la mia), gente in fondo buona, belle facce, che mi hanno voluto bene. E chi lo sa? Forse tra gli uomini non c'è un "altro" mondo ed è vero che "A vida è a arte do encontro" ("la vita è l'arte dell'incontro") come diceva Vinicius de Moraes. Oggi posso dirlo anch'io.
 
 
Federica - Calcutta (India) 
Prima di partire, alla domanda di molti " perché parti?" Rispondevo con un'altra domanda: "se ne ho la
possibilità, perché no?". In un mese passato in una casa famiglia a Calcutta, mandata avanti dall'ordine delle
Sorelle della Provvidenza, ho avuto la possibilità di conoscere e provare comprendere il mondo in cui vivono.
Provare a comprenderlo attraverso gli occhi di bambine e ragazze che hanno perso uno od entrambi i genitori.
Occhi di ragazze cresciute nella casa fin da piccole, e che ancora non hanno idea del mondo in cui si trovano, ma
hanno avuto l'immensa fortuna di ritrovarsi nelle mani di queste instancabili eroine. Sorelle che hanno deciso di
dedicare la loro intera vita alla costruzione del loro futuro. Spesso partiamo pensando di sapere cosa andremmo
a vedere, immagini da documentari, opinioni da telegiornali. Poi arrivi lì, e i tuoi pregiudizi e preconcetti valgono
zero. È il loro mondo, ed un mese è un periodo troppo breve per capirlo nel profondo. Ma ci provi. Ti fai
trascinare da un turbine di colori, odori, spezie, contrasti, volti e sguardi. Provi a vivere ogni giorno al fianco delle
ragazze, provando i loro giochi, sedendoti con loro per terra a studiare pazientemente su un libro i cui fogli sono
tenuti insieme per miracolo, intrecciando capelli prima di andare a scuola, strofinando spugne insaponate sulla
pelle delle più piccole. E davanti all’operato di cinque Sorelle, alle loro discussioni giornaliere per venire a capo di
problemi che insorgono nel momento in cui si è responsabili dell'educazione scolastica e non solo di più di 30
ragazze, non ti capaciti di come loro non smettano mai di ringraziarti per quel poco che hai fatto. Ma anzi, tu
vorresti ringraziarle per averti dato l’opportunità di vivere con loro questa grande esperienza.
 
Marta - Betlemme (Palestina)
È solo che non l’avevo immaginato. Non avevo immaginato neppure che sarei partita, che a quelle selezioni avrebbero scelto davvero me per questo progetto. Immaginatevi quindi quando all’improvviso me ne stavo all’aeroporto di Tel Aviv dopo infiniti controlli, avvolta da parole ebraiche. Immaginatevi quindi quando ho attraversato in un sol giorno Tel Aviv, Gerusalemme e Betlemme, saltando da una realtà all’altra. Benessere, tensione e Palestina. E mi hanno portato a mangiare tipico arabo in un ristorante che ricordava una tenda beduina. Mi ci è voluta una buona settimana solo per capire dove fossi, per imparare i nomi e i volti di chi mi stava attorno e i ritmi che avrebbero avuto le mie giornate. In realtà quei ritmi non li ho mai appresi, essendo ogni giorno diverso dagli altri. Ho cercato di cogliere tutte le opportunità che mi venivano date: esperienza nel deserto al summer camp organizzato dalle suore comboniane per i beduini? Sì. Due giorni ad esplorare il nord con due volontari toscani e la loro guida palestinese? Sì. Check point a piedi per arrivare a Gerusalemme? Sì. Visita alla Spianata delle Moschee con un mussulmano? Sì. E nonostante questo, nonostante tutto, ci sarebbe stato ancora così tanto da fare. Ancora cosi tanto da dare, da imparare e da scoprire. Ho cercato di vivere questa opportunità al meglio: non smettendo mai di mettermi in gioco, non smettendo mai di stupirmi, non smettendo mai di fare domande, non smettendo mai di dire sì. Quello che ne ho ricevuto in cambio è indescrivibile. Vedere luoghi storicamente, culturalmente e spiritualmente fondamentali; conoscere la realtà da vicino parlando e vivendo con chi da sempre o da molto la vive, con i palestinesi, con gli internazionali; aiutare pur non avendo niente da offrire, semplicemente sedendomi per terra a tirare la palla al bambino silenzioso che quel giorno si è avvicinato a me un po’di più, imboccando quell’anziana che non sa più farlo da sola canticchiando sottovoce perché quando canticchio quella sorride. Essermi semplicemente goduta qualsiasi momento, anche il più piccolo, anche una cena come mille altre cene con gli altri volontari in guesthouse. Mi rendo conto di aver vissuto qualcosa di unico, qualcosa che non si ripeterà mai più; perché anche se tornassi in quella terra niente si sarebbe fermato, non ci sarebbero le stesse persone ad aspettarmi, non potrei riprendere da dove ho lasciato. E questa consapevolezza mi rende quello che ho vissuto ancora più dolce e caro, mi riempie ancora di più di gratitudine e mi fa salire le lacrime agli occhi. Posso affermare che questo mese mi ha insegnato e segnata, mi ha cresciuta e cambiata. Questo progetto è stata un’esperienza che mai avrei immaginato sarebbe diventata un punto importante della mia esistenza.
 
Clelia - Port-au-Prince (Haiti)
Questo mese ad Haiti è volato ed io non me ne sono nemmeno resa conto. In men che non si dica ero di nuovo in Italia, nella mia Perugia sommersa dai ritmi frenetici della vita Europea.
Ad Haiti la musica scorre libera, veloce contrapponendosi al lento scorrere della quotidianità.
Ho visto gente vivere in baracche fatte di lamiere, legno e teli di plastica, tenuti in piedi per miracolo. Ho visto bambini giocare con il niente, correre scalzi sulla terra rossa e chiamarti “blanc” ogni volta che passi. Ho visto contadini lavorare sotto il sole cocente sui crinali delle montagne e camminare per ore per tornare a casa. Ho visto distese di alberi di banane dalle foglie giganti di un verde così intenso da lasciarti senza fiato. Ho visto famiglie abbattute dall’uragano che, con tanti sforzi, stanno rimettendo insieme i pezzi della loro vita.
Torno a casa convinta che “casa” sia più uno stato mentale che quattro mura, ma ho capito che per chi non possiede nulla quelle quattro mura sono tutto.