SERVIZIO PER LA PROMOZIONE DEL SOSTEGNO ECONOMICO ALLA CHIESA CATTOLICA
della Conferenza Episcopale Italiana

“Portiamo la fede a teatro con le parole di
Wojtila”

PAOLA GASSMAN Sono nata a Milano, da genitori ragazzini, appena ventenni, che mi battezzarono a San Babila i primi giorni della Liberazione. Ma la scoperta di Dio per me fu a Roma, alla scuola cattolica, con la preghiera ogni mattina in cappella prima di entrare in aula. Allora lo sopportavo poco, ma oggi ne ho […]
2 Agosto 2017

PAOLA GASSMAN
Sono nata a Milano, da genitori ragazzini, appena ventenni, che mi battezzarono a San Babila i primi giorni della Liberazione. Ma la scoperta di Dio per me fu a Roma, alla scuola cattolica, con la preghiera ogni mattina in cappella prima di entrare in aula.

Allora lo sopportavo poco, ma oggi ne ho ricordi intensi, come il momento della mia Prima Comunione. Ritrovo quelle emozioni quando interpreto lo struggente Pianto della Madonna di Jacopone da Todi. Il mio rapporto con la fede è stato contrastato, come tutte le cose grandi. Come quando ho vissuto da vicino le sofferenze di mio padre, che nell’ultimo periodo disperatamente dialogava con i sacerdoti, in particolare con don Innocenzo Gargano, camaldolese della chiesa romana di San Gregorio al Celio. Papà gli chiedeva come facesse a non avere dubbi su Dio.
­Dai miei non avevo avuto formazione religiosa: mio padre appunto ha riscoperto tardi la sua, e mia madre è morta giovane, dunque forse mai alle prese con domande che invece si impongono in un’età più matura. Oggi mia figlia è catechista. Nella vita l’abbraccio con Dio può dipendere molto dagli incontri con chi ti sa trasmettere le giuste domande. E a questo crocevia ci sono i sacerdoti. Tra i testi che ho portato in scena mi sono molto care le parole di Madre Teresa di Calcutta: “Vivi la vita”. E poi con Ugo abbiamo replicato spesso Giobbe, dramma teatrale di un sacerdote speciale, Karol Wojtyla (che verrà canonizzato il 27 aprile, ndr). Lo scrisse a vent’anni. È denso delle prove che vedeva vivere dai suoi connazionali durante la guerra, ma illuminato da una fede incrollabile e dall’amore per gli altri.
UGO PAGLIAI
Finché un giorno venne il momento dell’incontro con l’autore di Giobbe. Fummo ricevuti da Papa Wojtyla. Quando arrivò il mio turno mi avvicinò a sé sorridendo, con un calore nello sguardo che ricordo a distanza di dodici anni. «Padre Santo, ho recitato il suo Giobbe nella chiesa di Sant’Ignazio». E lui mi disse: «Grazie».
Provengo da una famiglia religiosa. Mia madre Gina si alzava alle cinque e mezzo di mattina per andare alla chiesa dei Cappuccini, a Pistoia, a cento metri da casa. Pregava per tutti: per la famiglia o per chi passava solo a trovarci. Quando uscivo mi benediceva e ci teneva che andassi in chiesa: c’era la guerra e per noi ragazzini la parrocchia di San Pietro, con don Mario, era tutto. Oggi ritrovo la fede intensa di mia madre quando interpreto grandi profili religiosi, come san Francesco di Paola.
Uomo d’eccezione, si considerava minimo fra i minimi e, nella sua vita difficile, ogni suo pensiero era per il prossimo. Così è anche nelle pagine di Giovanni Paolo II: nel suo Giobbe (in scena il 5 maggio a Roma, in una serata evento, ndr) emerge la fraternità verso tutti e lo sconcerto del giovane sacerdote per la violenza che vedeva attorno a sé mentre scriveva. Nel mio adattamento i nuovi “Giobbe” del nostro tempo sono anche Aldo Moro o l’arcivescovo Romero. Perché nella vita la vicinanza agli altri dev’essere una stella polare. Abbiamo cercato di trasmetterlo ai figli, con semplicità. Anche con fratelli adottati a distanza, come Sucumar. Che seppur da lontano, in dieci anni, è entrato nel cuore della nostra famigli