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Con don Lorenzo, accanto ai più poveri tra i poveri

Una parrocchia grande come tutta la sua diocesi di Pordenone, senza un chilometro di strada asfaltata. Fame, malattie, ignoranza, guerra e inondazioni: la vita di don Lorenzo Barro e della sua gente è tutt’altro che semplice. Eppure anche lì si trova la forza di sorridere…
28 Aprile 2022

di Miela Fagiolo D’Attilia - Le pagine Sacerdoti nel mondo sono realizzate in collaborazione con la Fondazione Missio

«L’anno scorso sono arrivati in tanti dalla vicina provincia di Cabo Delgado. Rifugiati poverissimi e spaventati, un migliaio di persone, soprattutto donne e bambini perché gli uomini erano rimasti a combattere, a difendere le case». Don Lorenzo Barro ricorda l’arrivo alla parrocchia di Chipene, diocesi di Nacala, via mare dalla costa Nord orientale del Mozambico, di centinaia persone in fuga dalla guerriglia alimentata da gruppi jihadisti, oggi contrastata con la collaborazione militare del Rwanda e dei Paesi del SADC (Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale), che ha costretto a scappare 700mila rifugiati in pochi mesi. 

Fidei donum della diocesi di Concordia Pordenone, 58 anni e una grande ammirazione «per questa gente che ha una vita dura», don Lorenzo ricorda quei mesi difficili di accoglienza e di pandemia come un tempo di prova speciale per il Mozambico, un Paese che occupa il 180esimo posto su 188 nell’indice di sviluppo umano, con il 54% degli abitanti che resta sotto la soglia minima di povertà. La missione di don Lorenzo è nella parrocchia di Chipene, con una estensione di più di 3.000 chilometri quadrati «un territorio più grande della nostra diocesi di Pordenone, senza un chilometro di strada asfaltata – spiega il missionario che è qui da sei anni -. Dopo la stagione delle piogge, o come nel 2019 con il ciclone Kenneth, ci ritroviamo con le strade distrutte. Ogni volta che usciamo dobbiamo essere pronti a qualunque tipo di imprevisto. 

Alcune zone della parrocchia sono praticamente irraggiungibili per mesi. Nessuno si mette in macchina per entrare nei cammini di collegamento che vengono erosi da torrenti d’acqua. A piedi ci vogliono molte ore di cammino in mezzo al nulla». Non è facile seguire pastoralmente le 145 comunità di cristiani sparse nell’entroterra del litorale, dove i cattolici sono il 10% circa della popolazione e i musulmani sono in maggioranza.

Insieme a don Lorenzo c’è don Loris Vignandel, arrivato nel 2018, e cinque suore comboniane: Angeles e Paula spagnole, Maria e Eleonora italiane, Sandrine del Togo. Al centro nutrizionale della missione c’è molto da fare per accogliere le mamme con i loro piccoli. Si combatte con un’altissima mortalità neonatale, racconta don Lorenzo: «Dopo essere nati vivi e avere la mamma sopravvissuta al parto, spesso li aspetta la fame. Molte donne non riescono ad allattare perché a loro volta denutrite. Eusebio ha due anni ma pesa solo tre chili, non ha nessun documento perché non è stato partorito all’ospedale, non ha fatto vaccinazioni. Una bambina nata da una mamma di appena 14 anni, morta di parto, è sopravvissuta solo grazie alle cure di suor Angeles. Molte mamme partono di casa quando è ancora buio per attraversare 12, 15 chilometri a piedi per venire a curare i piccoli».

Nell’ex colonia portoghese la speranza di vita media è di 41 anni per gli uomini e di 40 per le donne. «Le storie delle mamme che vengono al centro sono commoventi – dice don Lorenzo –; sono giovani, che con il loro niente cercano di curare con tenerezza i figli. È un’umanità poverissima e ignorante ma vera. È un Paese dove è possibile nascere, vivere e morire senza che il governo o chi per lui se ne accorga. Qui nascere è un rischio». Il cibo base (quando c’è) è fatto di poco: granturco, tapioca per fare la karakata, una specie di polenta, fagioli e verdure locali. Ma «qui si mangia di tutto, ci sono ricette per cucinare i topi, anche le scimmie».

Per don Lorenzo, il Mozambico è la prima esperienza di missione. In mezzo a questo popolo poverissimo si è rimboccato le maniche per aiutare a fare fronte ad emergenze drammatiche come la pandemia, le cui effettive conseguenze (2.200 decessi accertati circa) sono sconosciute per mancanza di strutture sanitarie. Negli ospedali esistenti il personale è poco qualificato e mancano le medicine, anche a causa della corruzione: anche se arrivano le medicine, gli infermieri se le imboscano così poi fanno i trattamenti a casa facendosi pagare. «La corruzione è un sistema tacitamente accettato che vale anche per la scuola, dove il passaggio di classe si può ottenere anche senza studiare. I professori abilitati sono pochi rispetto al numero degli alunni, le aule sono insufficienti, mancano i libri di testo e avere un foglio di carta, un quaderno e una penna, non sempre è possibile». 

Il livello dell’istruzione è molto basso: il tasso di alfabetizzazione è del 56% su quasi 28 milioni abitanti, anche se spesso chi è andato a scuola non sa leggere, scrivere e parlare portoghese. Sono state aperte molte scuole, ma la formazione dei professori è insufficiente e spesso la consapevolezza delle famiglie per investire nell’educazione dei figli è molto ridotta.

I ragazzi che vengono al nostro convitto sanno appena leggere e scrivere, non conoscono una parola di portoghese. Insegno materie scientifiche ma in matematica sono costretto a ripartire spesso dalle cose più elementari come le somme e le sottrazioni». La missione sulla frontiera della povertà è dura. «Il confine tra la vita e la morte è percepito e vissuto in maniera completamente diversa da quello che sentiamo noi. Quando ciò significa rassegnazione fatalistica alla situazione, è terribilmente drammatico, ma quando si fa capacità di accettare le situazioni e non arrendersi di fronte alle sfide più dure, con una certa “leggerezza” di vita, credo che questo popolo abbia molto da insegnarci». 

 

 

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