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della Conferenza Episcopale Italiana

Uniti nel dono / Dietro le sbarre per portare l’abbraccio di una famiglia

Il cappellano del carcere porta soprattutto conforto, vicinanza, capacità di ascolto. Egli è sempre "una presenza significativa, perché i detenuti lo cercano, lo incontrano, lo frequentano"
23 Maggio 2022

Siamo entrati nella Casa di reclusione di Rebibbia, a Roma, accompagnando il cappellano, don Antonio Pesciarelli. Con mons. Marco Fibbi, anch'egli cappellano della casa circondariale Raffaele Cinotti – Nuovo Complesso Rebibbia, scopriamo quale servizio svolgono in carcere.

(Unitineldono.it)

Qualche volta porta notizie dei familiari, qualche altra gli spiccioli per telefonare. Ma soprattutto porta conforto, vicinanza, capacità di ascolto. Il cappellano del carcere è sempre «una presenza significativa, perché i detenuti lo cercano, lo incontrano, lo frequentano. Forse molto di più di quello che succede all’esterno, tra le persone libere». Lo sa bene monsignor Marco Fibbi, cappellano della casa circondariale Raffaele Cinotti – Nuovo Complesso Rebibbia. Con lui, ogni giorno, si prendono cura di circa 1.400 detenuti anche padre Lucio Boldrin e don Stefano Occelli. C’è poi la Casa di reclusione di Rebibbia, il cui cappellano è don Antonio Pesciarelli (il protagonista del nostro video, “Ti ascolto”); ancora la Terza Casa Circondariale di Rebibbia, con padre Moreno Versolato e per finire il ramo femminile, dove le detenute possono contare su don Andrea Carosella.

«Il cappellano richiama il mondo libero – riflette monsignor Fibbi –. Può entrare e uscire, e lo fa non per un obbligo lavorativo, ma perché è la sua missione. Tutte le persone che frequentano un carcere sono inquadrate in un servizio e hanno un ruolo molto ben definito, servono per determinate cose, diciamo. Mentre il cappellano è una figura che è presente e disponibile proprio per i detenuti». E questo conta molto, agli occhi di chi sta scontando una pena.

«Il cappellano è lì proprio per loro, per stare loro vicino non solo per questioni di carattere spirituale ma anche materiale».

Accanto alle funzioni più prettamente religiose, come le celebrazioni liturgiche, infatti, «noi è come se facessimo sempre centro d’ascolto», sottolinea ancora il sacerdote. «Ad esempio, facciamo da tramite nei rapporti con le famiglie – spiega – e cerchiamo di mantenere i legami, perché il carcere limita molto la possibilità di comunicare; il cappellano è un mediatore spesso unico tra il detenuto e i familiari». Una situazione che si è complicata ancora di più a causa della pandemia, quando le visite sono state interrotte, e in diverse carceri italiane – anche a Rebibbia – ci sono state rivolte da parte dei detenuti. «Anche le quarantene hanno influito moltissimo sugli ingressi in carcere – ricorda il cappellano – perché ad esempio dei detenuti venivano spostati per fare le quarantene e le famiglie erano completamente tagliate fuori. In quella fase eravamo noi cappellani a fornire informazioni ai parenti». Aiutati, ci tiene a sottolineare don Marco, dai tanti volontari laici, da suore e seminaristi, presenze indispensabili in tanti penitenziari italiani. «Soprattutto in alcuni periodi particolari, come Natale o Pasqua, i volontari della Caritas e della Comunità di Sant’Egidio fanno un gran lavoro – evidenzia –, portano doni e dolci come colombe o panettoni». Molto graditi in un contesto in cui manca tutto.

Ma quello di cui davvero i detenuti sentono la mancanza, rimarca il sacerdote, «è il rapporto con la famiglia, sia vicina che lontana. Ci sono familiari che sono formalizzati, come le mogli, i figli, i genitori che hanno accesso al carcere – spiega –. Poi ci sono altri casi tipo la fidanzata, la compagna o convivente che non è autorizzata al colloquio, quindi in questo caso mantenere il rapporto diventa più difficile». A tenere uniti i fili ci pensano sempre loro: sacerdoti, religiose, volontari. «Proprio stamattina – racconta – ho dovuto portare la notizia di un lutto. Ho dovuto dire a un detenuto sulla cinquantina che era morta sua sorella, di 38 anni. Quasi non ci poteva credere, pensava che fosse morta la madre anziana. A noi tocca dare conforto sia religioso che umano». Anche perché in una casa circondariale i detenuti non credenti o che professano altre religioni sono parecchi.

I cappellani non fanno distinzioni, si mettono al fianco e al servizio di ciascuno.

Grazie alle catechesi che si tengono periodicamente, c’è anche chi si riaccosta alla fede. A Rebibbia Nuovo Complesso i detenuti hanno commesso i reati più vari, ma don Marco e gli altri cappellani guardano a loro soltanto come a delle persone. Nessuno è solamente un ladro o un assassino. «Celebriamo tante cresime, anche se durante la pandemia abbiamo dovuto interrompere – riprende il sacerdote –. E c’è stato perfino qualche battesimo».

(Testo di Giulia Rocchi – Foto e video di Giovanni Panozzo)