Campione d’Europa a 26 anni e del mondo a 40 suonati, nel 1982, Dino Zoff è un mito assoluto del calcio italiano e ancora oggi rimane “il portiere” per antonomasia. Personaggio schivo e mai sopra le righe, nella vita sportiva come in quella extracalcistica, le sue parate non concedevano mai nulla ai fotografi. In questa intervista, pubblicata sull'ultimo numero del nostro periodico Sovvenire, scopriamo il suo rapporto con la fede (a cura di Stefano Proietti, foto AFP).
A me hanno sempre insegnato che bisogna essere se stessi. Ho avuto l’esempio della famiglia e della mia gente: essere qualcuno, mediaticamente, o non esserlo, non comporta niente di diverso. L’importante è avere la bussola che uno sente dentro. Quella della dignità e del vivere con delle regole.
L’importante è partecipare e cercare di fare le cose per bene. Nello sport come nella vita c’è una regola: il lavoro va fatto come Dio comanda, nei limiti delle proprie possibilità. Secondo me è più importante la lezione che può arrivare da una vittoria che non quella che arriva da una sconfitta. La sconfitta è chiara: hai perso, devi rifarti. Invece la vittoria è pericolosa. Molte volte può farti gonfiare il petto a sproposito, se non sai gestirla, e questo può fare molto male.
Vengo da una famiglia religiosa. Forse non praticantissima… però nelle cose importanti mio padre, che ha fatto tanti anni di guerra, ha sempre ritenuto che il credere fosse determinante. Quindi sono vissuto con le regole, con i comandamenti della Chiesa. Ancora oggi per me la preghiera è soprattutto un aiuto. È la ricerca di un aiuto.
Beh, certo. Ricordo diversi sacerdoti con simpatia e grande affetto. Qualche altro un po’ meno… ma tanto non le farò nessun nome (ride). Il portiere è un uomo solo, è vero. Il prete in fondo no: ha un gregge molto più vasto!
L’incontro con Papa Wojtyla fu straordinario. Mi prese da parte e mi chiese se io fossi stato il portiere. Io risposi di sì e il Papa mi disse che anche lui aveva fatto il portiere da giovane. E poi mi fece i complimenti perché era “un ruolo di responsabilità”. Quelle parole mi fecero un immenso piacere; non tanto perché avevamo giocato nello stesso ruolo, ma per l’amicizia che mi aveva dimostrato.
Vivere bene è una parola grossa… L’importante è che crescano in salute, con dignità e voglia di far bene. Guardando ai giovani di oggi, e non mi riferisco certo a mio figlio e ai miei nipoti, io sono più preoccupato dei genitori che non dei ragazzi. Sono i genitori che a volte non riescono a dare ai figli il giusto quadro di valori.