Certo, uno si aspetta che, da inviato e viaggiatore di zone impervie, testimoni quel che ho visto fare ai preti in mondi lontani. Naturalmente ho visto molte cose buone, e non le dimentico. Penso ai gesuiti di San Salvador, ai francescani della Natività a Betlemme, ai missionari di Medici con lAfrica nel Sud Sudan, al salesiano che organizza le scuole a Quetta, la capitale dei talebani. Ma una cosa è quel che vedi fare, e che riscatta il tuo personale senso di impotenza, e ti assolve di colpe e ti restituisce un po di speranza. Altra cosa è quello che fanno per te, dove non conta quel che vedi, dove non sei spettatore, ma parte in causa. Non penso tanto al cappellano delloratorio, in tempi in cui il prete teneva sollevata la tonaca per giocare a pallone con noi ragazzini, né alle lezioni di dottrina, e neppure ai gesti solenni della Messa di Natale, quando combattevo tra il sonno e lemozione di servire da chierichetto. Penso all insegnante di religione del liceo, al suo puzzo di toscano e alla sua pazienza distante, che però comunicava una passione che finiva per incuriosirti. Penso ai due preti che frequentai nei giorni del terremoto friulano. Con uno dei due, mancato troppo presto, camminavo nei campi, un giorno che ci fu una forte scossa. Non cera nessun pericolo per noi, in mezzo a un campo, ma restai impietrito a sentire la scossa, sulla terra, come quel gioco della corda, unonda che corre sotto i tuoi piedi. Lui, sorridendo, mi disse che era la prova di quanto fosse naturale, e piuttosto di provar paura, si dovessero costruire case in grado di resistere a una scossa, come si fa un tetto che non faccia passare la pioggia. Erano preti che celebravano Messa allaperto, o in tenda, e dicevano: si facciano prima le case, poi le chiese, perché la cosa più importante è che ci sia la gente, quando ci saranno le chiese. Penso a quel prete che trovò le parole giuste per lenire il dolore per la scomparsa di un amico.
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