SERVIZIO PER LA PROMOZIONE DEL SOSTEGNO ECONOMICO ALLA CHIESA CATTOLICA
della Conferenza Episcopale Italiana

Nella terra di padre Ganni la sfida della fraternità

Don Ragheed, ucciso a 35 anni, è solo uno dei simboli della fede della Chiesa caldea tra Tigri ed Eufrate, rimasta viva in un trentennio di guerre ininterrotte. “L’Eucaristia – scriveva il giovane parroco, per cui è aperta la causa di beatificazione – ci dà la forza di resistere e di sperare”
16 Febbraio 2021
di MANUELA BORRACCINO foto AGENZIA ROMANO SICILIANI / per gentile concessione di ACS e di FIRAS KIDHER
«I cristiani di Mosul in Iraq non sono teologi, alcuni sono anche analfabeti. Eppure dentro di noi, da molte generazioni, è radicata una verità: senza domenica, senza l’Eucarestia non possiamo vivere. Questo è vero anche oggi che la forza del male in Iraq arriva a distruggere le chiese e i cristiani in un modo assolutamente imprevisto fino ad ora».
Con queste parole padre Ragheed Aziz Ganni rendeva ragione della sua speranza, invitato al Congresso eucaristico di Bari il 28 maggio 2005, due anni prima di venire ucciso da un commando di Al Qaeda. Era il 3 giugno 2007, aveva appena concluso la Messa della domenica dopo Pentecoste, nella sua parrocchia dello Spirito Santo a Mosul, quando un gruppo di guerriglieri islamisti lo freddò insieme a tre diaconi. In una delle ultime email aveva scritto: «Ogni giorno aspettiamo l’attacco decisivo, ma non smetteremo di celebrare Messa».
Il ricordo di padre Ragheed, definito dalla Chiesa caldea «un martire dell’Eucarestia» come racconta l’amico e biografo padre Rebwar Basa nella biografia Un sacerdote cattolico nello Stato islamico: la storia di padre Ganni (ACS, 2017), sarà al centro della visita apostolica di Papa Francesco in Iraq (5-8 marzo). Mosul, nel nord, è ancora oggi il cuore del cristianesimo siriaco: nella Piana di Ninive si parla aramaico, la lingua di Gesù.
Oggi in Iraq restano a malapena 400mila fedeli, per la maggior parte anziani, del milione e mezzo di cristiani del 2003; oltre mille gli uccisi, più di 60 le chiese bombardate.

Classe 1972, ingegnere prima di farsi sacerdote, padre Ragheed si era specializzato a Roma,   all’Angelicum, in teologia ecumenica. Parlava arabo, italiano, francese e inglese.
Nel 2003 rientrò in  patria: «quello è il mio posto» diceva. La sua chiesa era stata attaccata più volte. «Qualche volta – aveva detto a Bari – mi sento pieno di paura. Quando, in mano l’Eucarestia, dico le parole “Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”, sento in me la Sua forza: io tengo in mano l’ostia, ma in realtà è Lui che tiene me e tutti noi, che sfida i terroristi e ci tiene uniti nel suo amore senza fine. 
Attraverso la violenza del terrorismo, noi abbiamo scoperto in profondità che l’Eucarestia, il Cristo morto e risorto, ci dà la vita. E questo ci fa resistere e sperare».
Che cosa si aspettano gli iracheni dal viaggio di papa Francesco? «Sono un popolo che ha sofferto moltissimo – dice padre Firas Kidher, rogazionista iracheno da 15 anni a Roma, viceparroco della chiesa del Corpus Domini – Vedendo il Papa arrivare in diverse parti del mondo, semplicemente dicendo: Sono qui per voi!, qualche anno fa una fedele mi confidò: “Vediamo il Papa andare da chi soffre in diversi continenti e ci chiediamo: non siamo forse anche noi figli che hanno bisogno di essere benedetti e incoraggiati con affetto paterno?”.
Ogni cristiano iracheno avverte il bisogno di essere guardato con compassione per le ferite che ha nel cuore prima ancora di quelle fisiche: sono il segno della perseveranza nella fede, quella dei martiri e quella di ogni giorno, come esprime lo stesso termine in aramaico “Soh the” che significa sia testimone della fede, sia martire».