Classe 1972, ingegnere prima di farsi sacerdote, padre Ragheed si era specializzato a Roma, all’Angelicum, in teologia ecumenica. Parlava arabo, italiano, francese e inglese.
Nel 2003 rientrò in patria: «quello è il mio posto» diceva. La sua chiesa era stata attaccata più volte. «Qualche volta – aveva detto a Bari – mi sento pieno di paura. Quando, in mano l’Eucarestia, dico le parole “Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”, sento in me la Sua forza: io tengo in mano l’ostia, ma in realtà è Lui che tiene me e tutti noi, che sfida i terroristi e ci tiene uniti nel suo amore senza fine.
Attraverso la violenza del terrorismo, noi abbiamo scoperto in profondità che l’Eucarestia, il Cristo morto e risorto, ci dà la vita. E questo ci fa resistere e sperare».
Che cosa si aspettano gli iracheni dal viaggio di papa Francesco? «Sono un popolo che ha sofferto moltissimo – dice padre Firas Kidher, rogazionista iracheno da 15 anni a Roma, viceparroco della chiesa del Corpus Domini – Vedendo il Papa arrivare in diverse parti del mondo, semplicemente dicendo: Sono qui per voi!, qualche anno fa una fedele mi confidò: “Vediamo il Papa andare da chi soffre in diversi continenti e ci chiediamo: non siamo forse anche noi figli che hanno bisogno di essere benedetti e incoraggiati con affetto paterno?”.
Ogni cristiano iracheno avverte il bisogno di essere guardato con compassione per le ferite che ha nel cuore prima ancora di quelle fisiche: sono il segno della perseveranza nella fede, quella dei martiri e quella di ogni giorno, come esprime lo stesso termine in aramaico “Soh the” che significa sia testimone della fede, sia martire».