SERVIZIO PER LA PROMOZIONE DEL SOSTEGNO ECONOMICO ALLA CHIESA CATTOLICA
della Conferenza Episcopale Italiana

“Nei luoghi di oppressione
portiamo un clima di famiglia”

Da quest’anno l’Italia ha chiuso gli Opg, ma per gli internati non sempre le cose sono cambiate. Sacerdoti come don Pippo Insana e don Daniele Simonazzi hanno dedicato la vita a spezzare l’isolamento degli ‘ultimi fra gli ultimi’. Anche con progetti innovativi, che liberano la società intera
2 Dicembre 2015
Intervista a STEFANO NASSISI
foto di AGENZIA ROMANO SICILIANI (Pavia) – PIETRO MONTORSI (Pavia)
GIANNI CIPRIANO (Barcellona Pozzo di Gotto – ME)

 

Un’'inchiesta della Commissione parlamentare sull’'efficacia del Servizio sanitario nazionale nel 2010 svelò l'’orrore. Gli Ospedali psichiatrici giudiziari (ex manicomi criminali) altro non erano che luoghi di oppressione, indegni di un Paese civile. Gli internati, ben lontani dal ricevere cure, furono definiti ‘gli ultimi degli ultimi’. Condannati al dolore e all’oblio. Distogliere lo sguardo da queste periferie del mondo sembrava la regola. Ma c’è chi non l'ha fatto. “Davanti alle condizioni terrificanti in cui vivevano quei figli di Dio, è stato come sentire dentro di me la voce del Signore che mi diceva: Vai e liberali”. Padre Giuseppe Insana, nato nel 1944 e ordinato nel 1967, è stato cappellano dell'’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto dal 1984 al 2015 quando, per effetto della legge 81/2014, tutti gli ospedali psichiatrici giudiziari sono stati chiusi e i pazienti affidati ai neonati REMS (Residenze per l’'esecuzione delle misure di sicurezza). Un cambiamento per ora, in alcuni casi, avvenuto solo sulla carta, magari cambiando la targa all'’esterno degli istituti. Ma sacerdoti come don Giuseppe fanno la differenza.
“Questa liberazione poteva avvenire soltanto instaurando relazioni umane, abbattendo le barriere e creando un clima di vera famiglia. Per governare la malattia è fondamentale stare insieme, non essere abbandonati. Così ho iniziato ad accogliere a casa mia, in accordo con la magistratura, pazienti che godevano di permessi o che erano stati dimessi. Poco tempo dopo, insieme ad alcuni amici, ho fondato la Casa di Solidarietà e Accoglienza, dove abbiamo intrapreso per i pazienti percorsi riabilitativi individuali.
Non era difficile capire che spesso si trattava di malati che potevano essere curati. Molti si sono reinseriti completamente e ora hanno un lavoro. Altri sono impiegati nel sociale”. E aggiunge: “La fede dei pazienti è più grande della mia. In Opg spesso delle loro celle facevano delle piccole cappelle dove cantavano e pregavano. Molti, dopo aver preso coscienza del dolore che avevano procurato, hanno voluto espiare la propria colpa nutrendosi per giorni soltanto di pane e acqua. Oggi la Casa accoglie 6 ex internati. Per seguirli siamo presenti, a turno, in 25. E i cittadini, conoscendoli, hanno imparato ad accoglierli come fratelli”.

In Emilia-Romagna c’è un altro sacerdote che da anni si dedica a queste periferie umane. La missione di don Daniele Simonazzi, cappellano dell'’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia dal 1990, non è ancora finita. Nell'’istituto infatti restano circa 50 internati, per motivi burocratici ancora in attesa di destinazione. “La nostra è una comunità cristiana resa feconda dall’'ascolto della Parola di Dio - spiega don Daniele, classe 1959, sacerdote dal 1983 e dal 1992 parroco di Pratofontana (RE) - All'’interno dell’Opg la centralità del Verbo viene resa vera dalla carità e dalla condivisione. E in un ambiente così difficile, con le strutture assolutamente incapaci di rispondere alle esigenze dei pazienti, non potrebbe essere altrimenti. A restituire la vita - aggiunge - sono i rapporti interpersonali. Durante la settimana esaminiamo tutti insieme le letture della domenica. Nasce quindi una strettissima corrispondenza tra la quotidianità degli incontri e la partecipazione all’Eucaristia. Accade così che ad annunciare la Parola siano i pazienti stessi.
È vero sono io che faccio l’omelia. Ma - precisa - non faccio altro che seguire le indicazioni di tutta la comunità. In questa prospettiva la Santa Messa viene celebrata dall'’intera assemblea, non soltanto dal sacerdote che la presiede. Sarà così anche a Natale. Siamo uno. Siamo tutti responsabili dei nostri fratelli”.

 

DOPO DELITTO E CASTIGO

Nelle periferie umane
con lo spirito delle beatitudini

Per infermità mentale hanno commesso crimini, talvolta efferati, seminando dolore. Ma non mancano reati comuni, che li hanno portati comunque a scontare pene abnormi o un ‘ergastolo bianco’, per povertà o abbandono da parte delle loro stesse famiglie. Sono vissuti nel degrado igienico e umano, “oltre che nel terrore continuo di essere aggrediti da altri detenuti” testimonia un ex recluso. In questo inferno da decenni sono entrati i sacerdoti. E poi hanno promosso progetti che, caso per caso, hanno liberato e reso più umana, in strutture degne e con cure adeguate, la vita di tanti reietti, isolati dalla società intera, scioccata dai loro delitti e dal marchio della malattia mentale. “Negli anni ho visto persone alienate, stremate per gli abusi del letto di contenzione - ricorda don Insana - Con la loro riabilitazione, liberiamo una società intera”. P.I.