Don Eustache, che già nella sua terra aveva conosciuto sofferenze simili, senza pensarci due volte si fa avanti per donargli uno dei suoi reni. “Mi era già capitato di sentire parlare di trapianti – ricorda –. In Congo il mio Vescovo, anche lui ammalato, aveva ricevuto un rene dal nipote ed era guarito. Allora mi ero informato e avevo capito che si poteva vivere bene anche con un rene solo. Per questo quando Jean Michel ha iniziato ad aggravarsi e a soffrire di più, gli ho offerto il mio aiuto. Inizialmente lui non voleva accettare. Forse non credeva che lo avrei fatto veramente. Le sue condizioni però continuavano a peggiorare e io non smettevo di insistere.”
Non era semplice accettare un regalo così grande. “In questi anni di malattia ho sperimentato sulla mia pelle la fragilità della vita – racconta Jean Michel –. Pur soffrendo moltissimo, non credevo possibile un gesto così generoso. L’insistenza di don Eustache però è stata davvero grande: si è messo in contatto con i medici di Modena, che mi avevano in cura, e a settembre del 2020 finalmente ci siamo incontrati per iniziare il percorso. È stato un percorso lungo: analisi, visite mediche, ostacoli da superare e a volte tanta fatica. La sua presenza è stata forte e costante, rimanendo però sempre discreta.
Per me è stato veramente il dono di un fratello. Noi sacerdoti siamo una vera famiglia e io non posso che ringraziare il Signore di avermi fatto incontrare un fratello come lui”.
L’intervento è stato eseguito ai primi di marzo del 2021 al Policlinico di Modena, con tecniche all’avanguardia, ed è perfettamente riuscito. Dopo alcune settimane in osservazione i due sacerdoti hanno potuto riprendere la vita di sempre.
“Questa estate sarei dovuto rientrare in Congo – rivela don Eustache –: ho finito i miei studi proprio a giugno ed ero pronto a rientrare, ma i programmi possono cambiare. L’intervento mi costringerà a restare in Italia ancora un anno per sottopormi ai controlli medici, insieme a Jean Michel. Forse avrei potuto tirarmi indietro, ma sentivo che non sarebbe stato giusto: la vita di un uomo non ha prezzo e quella di Jean Michel aveva la precedenza sui miei piani. Adesso lui è tornato a camminare, non dovrà più fare la dialisi, tornerà presto anche agli impegni pastorali nella sua parrocchia. Vederlo così mi riempie il cuore di gioia. La sua felicità è anche la mia”.
LA QUARTA PAROLA DEL PERCORSO: “LEGAME”
UNITI A DIO, UNITI ALLA COMUNITÀ
“Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore”. L’immagine consegnataci dal profeta Osea (11,4) descrive poeticamente il legame d’amore che unisce Dio all’uomo, che è della stessa natura di quello che unisce noi ai nostri sacerdoti.
È proprio “legame”, infatti, la quarta parola dell’itinerario di riflessione che stiamo condividendo, anche attraverso le pagine di Sovvenire, con l’Ufficio nazionale della CEI per la pastorale delle vocazioni. Dopo “sogno”, “fecondità” e “fraternità”, la nostra attenzione si sposta dunque sulla promessa fatta da Gesù agli Apostoli prima di congedarsi da loro, così come la riporta il vangelo di Matteo (28,20): “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Alla sorgente di tutto per noi credenti c’è la relazione con Gesù. Questo ci ricorda che la natura ultima dell’uomo è essere legame d’amore, con Dio, con i propri fratelli, con i propri cari defunti. Il Signore ha promesso che sarà sempre con noi. Con noi nelle nostre gioie e nei nostri affanni, nelle nostre solitudini, nelle cadute, perfino nella morte, dalla quale ci libera con la Pasqua di Cristo.
Proprio come i sacerdoti, che sono uniti a noi da un legame che ci fa essere una sola grande famiglia consolidata dall’amore di Dio. Col loro aiuto, attraverso i sacramenti, teniamo vivo il legame con il Signore e anche con chi non ci è più fisicamente accanto, ma ci attende nella casa del Padre per godere in eterno di una gioia senza tramonto.