SERVIZIO PER LA PROMOZIONE DEL SOSTEGNO ECONOMICO ALLA CHIESA CATTOLICA
della Conferenza Episcopale Italiana

Sovvenire alle necessità della Chiesa. Corresponsabilità e partecipazione dei fedeli. VII capitolo

VII. PARTECIPAZIONE AL SOSTENTAMENTO DEL CLERO Fin dalle sue origini, la Chiesa ha avvertito la necessità di provvedere al sostentamento di coloro che Gesù ha chiamato gli «operai» del Vangelo (cf. Mt 10,10). Infatti, come l’apostolo Paolo ricorda con chiarezza, «il Signore ha disposto che quelli che annunziano il Vangelo vivano del Vangelo» (1Cor 9,14). […]
19 Settembre 2018

VII. PARTECIPAZIONE AL SOSTENTAMENTO DEL CLERO

  1. Fin dalle sue origini, la Chiesa ha avvertito la necessità di provvedere al sostentamento di coloro che Gesù ha chiamato gli «operai» del Vangelo (cf. Mt 10,10). Infatti, come l’apostolo Paolo ricorda con chiarezza, «il Signore ha disposto che quelli che annunziano il Vangelo vivano del Vangelo» (1Cor 9,14).

Questa parola impegna oggi la Chiesa in Italia a provvedere in particolare ai vescovi e ai sacerdoti secolari o religiosi che svolgono il loro ministero a servizio delle diocesi, in attesa che si definiscano in modo più chiaro ed omogeneo la figura e il servizio dei diaconi permanenti e la collaborazione pastorale a tempo pieno delle religiose.

Si tratta di assicurare agli odierni «operai del Vangelo», come vuole la legge della Chiesa, «una remunerazione adeguata alla loro condizione, tenendo presente sia la natura dell’ufficio che svolgono sia le circostanze di luogo e di tempo, perché con essa possano provvedere alle necessità della propria vita e alla giusta retribuzione di chi è a loro servizio. Così pure occorre fare in modo che essi usufruiscano della previdenza sociale, con la quale sia possibile provvedere convenientemente alle loro necessità in caso di malattia, di invalidità o di vecchiaia» (can. 281 §§ 1 e 2).

Non è questo certamente né l’unico né il principale problema per la Chiesa. Esso però riveste una concreta e permanente importanza, sia per quella esigenza di «contraccambio» dovuto a chi «semina in noi cose spirituali» (1Cor 9,11) «affaticandosi nella predicazione e nell’insegnamento» (1Tm 5,17-18), che è iscritta nella logica della comunione ecclesiale, sia per mettere in grado ogni vescovo e prete di dedicarsi con libertà evangelica al molteplice esercizio di un ministero pastorale che si fa sempre più impegnativo e faticoso, anche per la crescita dell’età media e la diminuzione numerica dei sacerdoti.

Si aggiunga che proprio nella materia del sostentamento del clero la recente revisione del Concordato ha introdotto indirizzi di radicale rinnovamento, rispetto agli equilibri sin qui garantiti dal sistema beneficiale-congruale.

  1. Le nuove prospettive che si aprono e gli impegni cui siamo chiamati possono essere così sinteticamente indicati all’attenzione responsabile di tutti:
    a) Spetta anzitutto alla comunità parrocchiale o all’ente ecclesiastico presso il quale il sacerdote svolge il ministero provvedere al sostentamento di questi, tenendosi ovviamente conto anche degli eventuali stipendi che il prete riceve quando il suo servizio ha rilievo civile e di parte delle pensioni che avesse maturato nell’esercizio di un’attività ministeriale.
    b) Se la comunità o l’ente non è in grado di provvedere completamente, secondo i criteri e le misure stabiliti dalla CEI e periodicamente aggiornati, interviene l’istituto diocesano per il sostentamento del clero, impegnando i redditi dei beni già appartenenti ai benefici, che direttamente amministra.
    c) Se neppure con l’intervento dell’istituto si riesce ad assicurare al sacerdote quanto dovutogli, si fa ricorso, tramite l’istituto centrale per il sostentamento del clero, all’apporto derivante dalle due forme di sostegno agevolato alla Chiesa introdotte con la revisione del Concordato: le offerte deducibili fatte in favore del medesimo istituto centrale e una parte, determinata dalla CEI, della quota assegnata dai cittadini contribuenti alla Chiesa cattolica sullo 0, 8 per cento del gettito complessivo IRPEF.

Come si vede, il nuovo sistema cerca di comporre ordinatamente la primaria responsabilità della comunità cristiana verso coloro che la servono e la presiedono, la valorizzazione del patrimonio ex-beneficiale secondo i suoi fini originari e costitutivi, e il libero apporto dei cittadini, non soltanto praticanti o credenti, agevolato dallo stato.
Tutto questo si muove in una linea di solidarietà e di perequazione tra le comunità cristiane e tra gli stessi sacerdoti: a chi maggiormente può è chiesto di dare di più, onde permettere di intervenire in favore di chi può meno e così «fare uguaglianza» (2Cor 8,13).
Non possiamo in questa sede dilungarci oltre nella descrizione del nuovo sistema.
Ci preme piuttosto dire una parola franca e serena ai nostri preti, e a noi vescovi con loro, e a tutti voi fedeli.

a) Una parola ai preti e ai vescovi

  1. Il diritto di «vivere del Vangelo» ci è assicurato dalla Chiesa, fedele alla parola del Signore. Ma esso trova significato autentico e garanzia concreta soltanto nel quadro dei valori evangelici vissuti.          Per sperimentare quaggiù la verità del «centuplo» promessoci occorre «lasciare tutto» davvero (cf. Mc 10,28-31), comprese le ansietà sfiduciate e la ricerca di sicurezze per vie che non sono evangeliche.

Sì, il Signore l’ha promesso: a chi si spende senza riserve per l’annuncio del Vangelo non mancherà quel «pane quotidiano» che egli ci ha insegnato a domandare al Padre (cf. Mt 6,11), e anche più; il suo Spirito saprà sempre suscitare nel cuore dei credenti la coscienza convinta e gioiosa di dover concorrere, anche attraverso la trama della solidarietà interecclesiale, a far sì che i continuatori del servizio apostolico, nutrendosi oggi di quel pane, possano ancora domani dedicarsi totalmente all’annuncio della salvezza e al servizio della gente. È questione di fede nella parola di Gesù e di fiducia nella forza educatrice del nostro ministero! Del resto, anche l’esperienza da sempre lo conferma: dalle mani dei preti convinti, generosi, distaccati, non cessa di passare il flusso della carità dei fedeli, che basta per loro e giova a tanti altri; mentre nelle mani dei preti sfiduciati, preoccupati della sicurezza e perciò attaccati al denaro, quel flusso spesso inaridisce.

È in questo orizzonte di libertà e di fierezza apostolica che sapremo trovare lo stile giusto nel vivere il rapporto con le nostre comunità anche in questa delicata materia. Avremo il coraggio di chiedere ai fedeli con franchezza evangelica, ma soprattutto la sapienza di educare con la testimonianza della nostra vita, prima che con le parole e le disposizioni della Chiesa, senza alterare l’ordine dei valori che sono in gioco: «Non vi sarò di peso, perché non cerco i vostri beni ma voi. Infatti non spetta ai figli mettere da parte per i genitori, ma ai genitori per i figli. Per conto mio mi prodigherò volentieri, anzi consumerò me stesso per le vostre anime. Se io vi amo più intensamente, dovrei essere riamato di meno?» (2Cor 12,14-15).

Che se anche avvenisse di sperimentare momenti di difficoltà economica personale o comune, riscopriremo la gioia e la fierezza di condividere più profondamente la vita e le vicende delle nostre comunità nella buona e nella cattiva sorte, avendo liberamente accettato la precarietà di questa evangelica dipendenza dagli altri fratelli di fede come caratteristica peculiare, anzi in un certo senso come elemento identificante, della nostra povertà di preti secolari, secondo quanto ci ha insegnato l’Apostolo: «Ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione; ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco: sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà forza» (Fil 4,11-13).

In questa prospettiva va inserito anche il problema, talvolta angustiante, della nostra vecchiaia. Dovremo certamente educare le nostre comunità a saperci accogliere, o in ogni modo a provvedere per noi, anche quando le nostre forze verranno meno; pronti però a dare l’esempio di una solidarietà fraterna tra noi, che preordina con liberi apporti forme diocesane di sostegno, di assistenza e di accoglienza per chi è provato dalla malattia o impedito dall’età, come già lodevolmente avviene in diverse diocesi, e ad accettare anche i sacrifici propri di una condizione che non sempre potrà essere pari alla grandezza del servizio che abbiamo esercitato, non dimenticando che tanti anziani si trovano oggi in angustie ancor più gravi della nostre.

  1. Ci si lasci ricordare, poi, che anche per noi deve valere quella correttezza e quella trasparenza che vorremmo fossero sempre di più tratti caratteristici di un’amministrazione ecclesiastica credibile. Vi sono aspetti di grande importanza nella gestione personale dei beni di cui disponiamo, che sono da riconsiderare con convinzione e con chiarezza.

Non dispiaccia se ne richiamiamo alcuni, in linea con il concilio e con il codice di diritto canonico:
a) «Mossi dallo Spirito del Signore, che unse il Salvatore e lo mandò ad evangelizzare i poveri, i preti, come pure i vescovi, evitino tutto ciò che può allontanare i poveri, e più ancora degli altri discepoli di Cristo vedano di eliminare dalle proprie cose ogni ombra di vanità» (PO 17e; anche can. 282 § 1).

b) I preti, «dato che il Signore è loro "parte di eredità" (Nm 18,20), debbono usare dei beni temporali solo per quei fini ai quali tali beni possono essere destinati secondo la dottrina di Cristo Signore e gli ordinamenti della Chiesa.

Quanto ai beni ecclesiastici propriamente detti devono amministrarli, come esige la natura stessa di tali cose, a norma delle leggi ecclesiastiche... Quanto poi ai beni loro assicurati in occasione dell’esercizio di qualche ufficio ecclesiastico, i preti, come pure i vescovi..., devono impiegarli anzitutto per il proprio onesto sostentamento e per l’assolvimento dei doveri del proprio stato; ciò che eventualmente rimane vogliano destinarlo per il bene della Chiesa e per le opere di carità» (PO 17c; cf. anche can. 282 § 2).

c) I preti «non trattino dunque l’ufficio ecclesiastico come occasione di guadagno, né impieghino il reddito che ne deriva per aumentare le sostanze della propria famiglia» e quindi, «senza affezionarsi in alcun modo alle ricchezze, debbono evitare sempre ogni bramosia e astenersi accuratamente da qualsiasi tipo di commercio» (PO 17c; anche cann. 285 e 1392).

d) In questo contesto deve essere richiamato con forza il dovere di ciascun prete e di ciascun vescovo, tante volte ribadito dai sinodi diocesani, di fare testamento, depositandone copia presso la curia diocesana o persona fidata, evitando così che i beni derivanti dal ministero, cioè dalla Chiesa, finiscano ai parenti per successione di legge; e di formulare le proprie volontà in coerenza con i valori sopra ricordati disponendo in favore della Chiesa dei beni di origine ministeriale e non temendo di «restituire» alla Chiesa stessa l’incommensurabile ricchezza spirituale da essa ricevuta anche destinandole i propri beni personali.
Non si dimentichi, del resto, che il già citato can. 222, che stabilisce per tutti i «fedeli» il dovere di sovvenire alle necessità della Chiesa e di soccorrere i poveri con i propri redditi, vale anche per vescovi e preti, i quali, prima che «ministri», sono «battezzati».

e) Ma soprattutto va messa in piena luce nella coscienza sacerdotale quella pagina appassionata del concilio, nella quale siamo «invitati ad abbracciare la povertà volontaria, con cui possiamo conformarci a Cristo in modo più evidente ed essere in grado di svolgere con maggior prontezza il sacro ministero. Cristo infatti da ricco che era è diventato povero per noi, perché la sua povertà ci facesse ricchi; e gli apostoli, dal canto loro, hanno testimoniato con l’esempio personale che il dono di Dio, che è gratuito, dev’essere trasmesso gratuitamente, sapendo vivere nell’abbondanza e nell’indigenza» (PO 17d; 2Cor 8,9).

b) Una parola ai fedeli

  1. La responsabilità di provvedere ai vostri vescovi e ai vostri preti torna sempre più ad essere impegno e onore vostro, come alle origini della Chiesa.

Sappiamo di poter confidare sul vostro senso di responsabilità, educato dalla fede e dall’affetto che nutrite verso di noi. Vale ancora una volta la legge dello «scambio evangelico»: «Chi viene istruito nella dottrina faccia parte di quanto possiede a chi lo istruisce» (Gal 6,6).

Vescovi e preti, siamo per voi. Se talvolta la nostra povera umanità vela lo splendore della Parola che vi annunciamo e la nostra incerta carità non riesce a pareggiare l’impeto dell’amore di Cristo che ci manda a vostro servizio, la nostra vita è stata però interamente e liberamente a voi consacrata nel suo nome e ogni giorno la vorremmo gioiosamente consumare condividendo le vostre fatiche e sostenendo le vostre speranze.

Osiamo perciò chiedervi di «aprire con noi un conto di dare e avere» nella logica paradossale del Vangelo, come fecero quelli di Filippi con l’apostolo Paolo prendendo concretamente parte alle sue tribolazioni mediante il sostegno economico (Fil 4,14-15); sapendo che «non è però il vostro dono che ricerchiamo, ma il frutto che ridonda a vostro vantaggio» (Fil 4,17). Anche per voi, infatti, questa rinnovata forma di comunione fraterna con i vostri pastori può diventare esperienza spiritualmente arricchente: i vostri doni «sono un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio»; e Dio «a sua volta colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza in Cristo Gesù» (Fil 4,18-19).

Così potremo anche render vero l’augurio che il papa Giovanni Paolo II esprimeva al presidente della nostra conferenza episcopale il 5 agosto 1985, dopo l’entrata in vigore della riforma concordataria: «Il nuovo sistema (di sostentamento del clero) contribuisca a rendere più viva la coscienza dei sacerdoti e dei fedeli di appartenersi gli uni agli altri, e di essere tutti, ciascuno in conformità al proprio stato e secondo le proprie capacità, responsabili della vita e dell’azione della Chiesa» (Notiziario CEI, n. 12, agosto 1985, p. 397).

La partecipazione dei fedeli anche al sostegno economico, segno e frutto di una consapevole corresponsabilità ecclesiale, concorrerà così a far crescere - ed è la cosa che importa - la grazia e l’esperienza della comunione.

  1. Anche qui non possiamo dilungarci in precisazioni concrete e in disposizioni amministrative, che saranno via via presentate all’attenzione dei fedeli.

Ci sia permesso, tuttavia, di far cenno almeno a un aspetto, il cui rilievo non vorremmo fosse oscurato dall’organico dispiegarsi del nuovo sistema di sostentamento del clero. Si tratta dell’offerta che accompagna la richiesta di celebrazione della santa messa e di «applicazione» del suo frutto secondo una speciale intenzione cara all’offerente.

La rinnovata disciplina della Chiesa raccomanda vivamente ai sacerdoti di celebrare la messa per le intenzioni dei fedeli, soprattutto dei più poveri, anche senza ricevere alcuna offerta (cf. can. 945 § 2);

nello stesso tempo però ricorda che «i fedeli che danno l’offerta perché la messa venga celebrata secondo la loro intenzione contribuiscono al bene della Chiesa e mediante tale apporto partecipano alla sua sollecitudine per il sostentamento dei ministri e il sostegno delle sue opere» (can. 946).

Si tratta di una forma discreta e delicata di partecipazione alle necessità dei sacerdoti, spesso animata dalla riconoscenza e dall’amicizia verso un prete cui si è spiritualmente debitori o dalla stima per la sua pietà e per il suo zelo pastorale. In continuità con una lunga tradizione ecclesiale, tale forma merita di essere coltivata, motivandola correttamente ed evitando assolutamente anche la sola apparenza di contrattazione o di commercio (cf. can. 947).